“E il giorno arrivò. Un giorno accadde l’inevitabile. È uno schiaffo emozionale e nazionale. Un duro colpo che rimbomba in tutte le latitudini. Un impatto mondiale. Una notizia che segna una traccia nella storia. La sentenza che varie volte era stata scritta però sempre dribblata dal destino ora è parte di una triste realtà: è morto Diego Armando Maradona”.
Queste le parole con cui il quotidiano argentino Clarin annuncia la morte de “El pibe de oro”, che solo poche settimane fa aveva compiuto 60 anni. Un arresto cardiaco se l’è portato via dopo un delicato intervento chirurgico subito poche settimane fa.
Ha scelto un giorno non a caso per morire. Il 25 novembre del 2005 morì George Best che, non ce ne vorrà, da oggi dovrà sentirsi nuovamente scalzato dal mancino di Diego.
La notizia è arrivata all’improvviso, attraversando il globo terrestre in pochi minuti. Le signore si sono affacciate ai balconi per avvisarsi, come se fosse morto uno di famiglia. Un passaparola triste e sofferto.
Un duro colpo al cuore per quanti lo hanno amato e osannato per decenni, sia in campo che nella vita. Dai barrios di Buenos Aires ai vicoli di Napoli, Diego Armando Maradona era una leggenda vivente. Un “D10s” che aveva preso con quella “mano de Dios” popolazioni povere, emarginate, troppo spesso vittime di pregiudizi e razzismi di ogni tipo, portandole sulla vetta del mondo del calcio, ma non solo.
Morto un Maradona non se ne fa un altro.
Diego Armando Maradona, infatti, non era solo un formidabile calciatore: era “il calcio”. L’essenza di uno sport che nel secolo breve riusciva a rivoluzionare le classifiche geopolitiche delle squadre blasonate, quelle dei gruppi di potere, delle grandi fortezze economiche ed industriali.
Più politica che “fùtbol”, la sfrontatezza della “revolucion” contro l’occasione del contropiede.
Il tatuaggio di Che Guevara sulla spalla, il goal di mano all’Inghilterra, l’amicizia con Fidel Castro, il 5 a 1 contro la Juve in Supercoppa, il sostegno a Chavez e Morales, il riscaldamento su “Live is Life” in semifinale di Coppa Uefa contro il Bayern Monaco, il dito medio rivolto a George W Bush. Lui voleva essere sempre quel Davide che andava contro qualsiasi Golia.
“Io sono sinistro, tutto sinistro: di piede, di fede, di cervello” amava definirsi così. L’antisistema per eccellenza.
“Si yo fuera Maradona, saldría en mondovision para gritarle a la FIFA que ellos son el gran ladrón! Si yo fuera Maradona viviría como él, porque el mundo es una bola que se vive a flor de piel. Si yo fuera Maradona, frente a cualquier porquería nunca me equivocaría. La vida es una tómbola” cantava Manu Chao, e stavolta dal panariello della vita è uscito il numero 10, quello di Diego.
Tante le frasi celebri che hanno accompagnato Diego Armando Maradona sul rettangolo di gioco. La più famosa, forse, è quella recitata da Victor Hugo Morales, il giornalista uruguaiano che commentò “il gol del siglo” in Argentina – Inghilterra ai mondiali Mexico ’86.
“Quiero llorar! ¡Dios Santo, viva el fútbol!… Maradona, en una corrida memorable, en la jugada de todos los tiempos… barrilete cósmico… ¿de qué planeta viniste? ¡Para dejar en el camino a tanto inglés! ¡Para que el país sea un puño apretado, gritando por Argentina”. Un aquilone spaziale che ora è tornato a volare. Esattamente come lui faceva volare tutti gli altri, quelli che potevano solo ammirarlo.
La mia generazione, quella nata negli anni in cui Maradona diventava il re di Napoli, lo ha visto solo per videocassette, lo ha conosciuto attraverso i racconti di chi quelle giocate le aveva vissute allo stadio o in strada a festeggiare. Come si fa quando si parla di un parente che non si è potuto conoscere, scomparso prima venire al mondo.
Il mito a Napoli e nel resto della Campania, quindi, lo celebravamo così.
Le tv locali non hanno mai smesso di trasmettere le giocate di Diego, sia in estate ma soprattutto quando il Napoli era caduto in basso, molto in basso. Troppo per una squadra che aveva avuto il Dio del calcio.
Nella mia città, a Pagani (Sa), c’erano i campetti di calcio in pieno centro dedicati a sua figlia, i famosi “Dalmita Maradona”. All’inaugurazione c’era stato proprio Maradona con la sua famiglia e le foto di quella sera erano esposte a mo’ di edicola votiva. Tutti noi che frequentavamo quei campetti, giovani e meno giovani, ci fermavamo sempre a guardare quelle foto. Diego, i suoi ricci, il suo sinistro in città, su quel campo di erba sintetica dove giocavamo anche noi. Una cosa incredibile da raccontare.
Diego era il metro di paragone per qualsiasi cosa, qualsiasi giocata, nel calcio come nella vita.
Non a caso in questi territori, ma anche in tutto il resto d’Italia, per osannare una persona che eccelle nel proprio settore molto spesso si usa la formula “il Maradona del…”.
A calcio, invece, per denigrare l’avversario dopo una giocata finita male, l’esclamazione era “e che ti credi di essere Maradona?”.
Tutto girava e gira attorno a lui, come il pallone. Un’icona a cui chiedere di intercedere per trasformare i sogni in realtà.
“San Gennaro mio, non ti crucciare, lo sai che ti voglio bene. Ma na finta ‘e Maradona scioglie ‘o sanghe dind’e vene… E chest’è!” è la frase del poeta in “Così parlò Bellavista”, il film di Luciano De Crescenzo, che potrebbe riassumere meglio cosa hanno provato i tifosi del Napoli negli anni di Maradona.
Adesso non basterebbero tutti i pacchi di zucchero e caffè per addolcire il dolore nel cuore di tutti i napoletani, di qualsiasi generazione.
“Il cuore di Napoli è sempre azzurro. Non oggi. Oggi tenimme “‘o core scuro scuro”. D10 è tornato da dove è venuto” ha affermato Anna Trieste, giornalista e tifosissima del Napoli appena la notizia è giunta in Italia. Parole a cui è seguita la rabbia, la stessa che tutti i maradoniani stanno provando in questi momenti in cui tutto il mondo, persino i più acerrimi nemici e detrattori, manifestano a mezzo social un dolore che sa di ipocrisia.
“La falsità del calcio italiano è ridicola. Per rendere merito a Maradona e risarcirlo (in parte) della merda che in vita gli avete buttato addosso non basta un minuto di silenzio. Ce vuless un anno ‘e scuorn!”. Come darle torto.
Poi c’è la rabbia, altrettanto sincera, di chi invece avrebbe voluto che Diego fosse stato Maradona anche nella sua vita e non solo nel rettangolo di gioco. La grandezza del mito non ha mai vinto sulle debolezze dell’uomo, oppure è stato proprio il mito a rovinare l’uomo.
Ma se sono riusciti a perdonarlo i familiari ed i figli che solo da poco sono stati riconosciuti come tali, perché non avremmo dovuto farlo noi? “Chi ama non dimentica”, appunto.
Diego del resto è sempre stata una leggenda vivente e ad una “leyenda” perdoni tutti. Anche il fatto di essere morto all’improvviso, in un maledetto 25 novembre del disastroso 2020.
Solo una cosa può consolarci: da oggi Diego Armando Maradona è divenuto eterno.
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