Il 2021 è stato un indiementicabile anno fallimentare per la musica alternativa italiana. L’accesso al mainstream per corsie preferenziali e la rinuncia alla scena indipendente. Il resoconto di un disfacimento annunciato per cui tutti dovremmo sentirci colpevoli.

AVVERTENZE PRIMA DELLA LETTURA: questo non è un articolo denigratorio verso le band che “ce l’hanno fatta”. Questa è solo una constatazione dello stato attuale di uno scenario che ha deciso di diventare tutt’altro.

Chiunque abbia preso in mano uno strumento per la prima volta, abbia iniziato a comporre la propria musica, in un fatiscente garage adibito a “sala prove”, ha sognato di riprodurre quelle prime note in un concerto, davanti a migliaia di persone. Chiunque affermi il contrario sta mentendo.

Non c’è nulla di male, un’aspirazione legittima quella di migliorarsi ed essere riconosciuti per il proprio talento. Un tratto distintivo del carattere dell’individuo alla base di ogni miglioramento, scoperta, progresso dell’umanità stessa. Ma per ogni traguardo raggiunto c’è un percorso che ne certifichi o sminuisca la riuscita a seconda della strada intrapresa.

Può capitare che sia una questione di fortuna, trovarsi nel posto giusto al momento giusto. A volte è un riconoscimento, spesso tardivo, di un percorso di crescita. Spesso è frutto di una meticolosa ricerca di quello che gli altri si aspettano dal tuo progetto, di uno snaturamento delle tue intenzioni per adottare un messaggio condivisibile e condiviso, insomma di un analisi di mercato.

Se per tanti aspetti della vita, il “compromesso” è sinonimo di intelligenza, capacità di adattamento, sopravvivenza, nelle espressioni artistiche non è così. Non può essere così.

L’arte non è una scelta, ma una condizione. Una risposta ad un’esigenza di comunicare un messaggio. Un racconto non per forza comprensibile a chiunque. Saranno i fruitori ad identificarsi in quel messaggio, oppure no. Ma resterà qualcosa di autentico, uno sfogo all’esigenza di comunicare da parte dell’artista.

Costruire quel messaggio in base ad un’analisi di gradimento adeguandolo alle tendenze, snatura il senso stesso del concetto di arte. Potrà essere certo un modello vincente e di successo, ma “Arte” è un’altra cosa.

Tutto questo pippone concettuale lo conoscevamo bene. Sicuramente lo conoscevano tante di quelle band nate in un garage. Essere alternativi agli esperimenti da laboratorio discografico usa e getta dei tormentoni estivi, delle kermesse in prima serata, dei festival nazionalpopolari che tutti abbiamo visto con simpatia semplicemente per ricordarci che c’è molto di meglio là fuori. Questo significava la scelta di restare indipendente.

L’artista è destinato a non avere successo? L’unico modo che ha quella band per uscire dal garage è svendersi alla produzione commerciale?

No, non è così. O almeno non proprio. Lo sviluppo tecnologico insieme alla nascita dei social network hanno delineato un nuovo percorso. Da Myspace ai primi software open source per la registrazione di tracce audio in maniera professionale, tutto portava in un’unica direzione: il superamento dei canali tradizionali di diffusione commerciale.

Una rivoluzione impattante soprattutto sull’ascoltatore che ha avuto la possibilità di diventare attivo nelle proprie scelte musicali, piuttosto che subirle da radio e tv.

Le grandi etichette discografiche hanno iniziato a perdere terreno in favore delle piccole realtà indipendenti e autoprodotte. La sola Mescal combatteva una guerra da vincente con un roster impressionante: Carmen Consoli, Cristina Donà, La Crus, Massimo Volume, Riccardo Sinigallia, Skiantos, Perturbazione, Ermal Meta, Luciano Ligabue, Subsonica, i Bluvertigo di Morgan, gli Afterhours di Manuel Agnelli e tanti, tantissimi altri.

Un modello tanto vincente da far tendenza, una realtà impressionante che, pur mantenendo il proprio status artistico di libertà espressiva, riusciva a raggiungere il grande pubblico trascinando con sé tutta la scena.

Assistevamo alla caduta libera della discografia commerciale come l’assalto al Palazzo d’Inverno: il declino dell’impero per scelta popolare.

Ma tutto ha un prezzo. Compresa la rivoluzione. Molti di quei nomi iniziarono a smettere di ascoltare la propria musica per essere attratti dal suono delle sirene del mainstream. Ligabue alla Warner, i Subsonica alla EMI, gli Afterhours alla Universal, i Bluvertigo alla Sony. Manuel Agnelli ad XFactor. Morgan a Ballando con le Stelle. Ricordate, non è un accanimento: è solo una constatazione del come e perché siamo arrivati al fallimento della scena indipendente italiana.

Non stiamo parlando propriamente di band costrette a turni in fabbrica pur di riuscire a coltivare una passione. Da quel garage erano già emersi. Eccome. Ma ad un certo punto hanno avuto l’esigenza di aumentare i guadagni in cambio di un evidente calo artistico.

“Ho visto le menti migliori della mia generazione mendicare una presenza al varietà del sabato sera.” (Massimo Volume – Fausto)

Un’intera realtà in via di espansione, ad un passo dalla realizzazione, abbandona una lotta già vinta. In cambio del raccontare alle nuove generazioni che quel signore che si commuove in prima serata per una interpretazione vaga di una cover e quel tizio che litiga un po’ con tutti di sabato sera per la sua performance ballerina, sono gli stessi del dismesso nella nostra cameretta.

E cosa avremmo potuto farci noi per evitarlo? Forse comprare qualche biglietto in più. Acquistare un disco, invece di scaricarlo da internet. Vestirci di un certo merchandising (in molti casi da paura) magari. Dobbiamo tenere conto anche delle nostre responsabilità.

“Indi come indipendente, ma da quali sostanze? Da quali attitudini e quali circostanze?” (Eva Mon Amour – Indi)

Essere indipendente è oggi una corsia da percorrere nel tempo necessario ad emergere grazie ad un talent show. Quelle sonorità low-fi, ma viscerali ed emozionanti, sono giustificate dall’attesa di trovare una grande produzione musicale ad aggiustare arrangiamenti, testi e suoni per uniformarli al grande pubblico.

L’Indie è una lista di attesa, un catalogo da cui l’industria discografica attinge in momenti di crisi economica, trovando prodotti già strutturati, da ripulire un po’ e dare in pasto alle playlist di tendenza sulle piattaforme che mettono insieme Pinguini Tattici Nucleari con LDA (figlio di Gigi D’Alessio) che per il pubblico di Amici ne realizza la cover.

Indie è un prodotto patinato, fatto di social network curati, foto costruite, tormentoni preimpostati per piacere ad ogni costo. A chiunque.

Viviamo una realtà in cui possiamo accumunare, sullo stesso piano, vincitori di Sanremo come Povia, Marco Carta, Valerio Scanu e Måneskin in nome di un sistema chiamato “giuria popolare” che premia il più visibile (grazie ad un talent o ad un social media manager).

La pandemia da Covid, come in ogni altra crisi, ha messo in risalto tutte le lacune e l’inconsistenza dello scenario Indie Italiano.

Tutte quelle band che si stavano posizionando sulla scia dei vari Pinguini Tattici Nucleari, The Giornalisti, gli stessi Måneskin si sono ritrovati senza alcun mercato. Si può anche seguire un hype, ma senza live non si sopravvive.

Con tutte le fragilità emerse dal seguire una tendenza senza avere la capacità di cavalcarla, si apre un nuovo scenario: scegliere se costituire un’azienda di tipo commerciale o ritornare a suonare, scrivere e cantare qualcosa semplicemente per raccontare quel messaggio. Entrare empaticamente tra gli ascolti di alcuni, invece che di tutti. Perché “tutti” alla fine ti hanno già dimenticato, per passare al prossimo fenomeno di massa.

E se sei arrivato a leggere fino a questo punto, ti meriti le mie scuse per il gioco di parole “indiementicabile“. Lo so, non la migliore delle trovate. Però boh…forse mi funziona online col clickbait.