“Alla luce di un lampione di un parcheggio ho osato scommettere contro me stesso” recita “Piccoli brividi” in “E vissero feriti e contenti”, ultimo album di Ghemon, all’anagrafe Giovanni Luca Picariello. È Il secondo Sanremo di fila e il secondo disco in dodici mesi, per lui che appena venti anni fa era considerato, in Campania, l’enfant prodige del rap metropolitano, sputato fuori bruciando tutte le tappe e superando tutti i pronostici. Mc dei Sangmaro, tra i marciapiedi di quei meandri urbani raccontano ancora  di un diciassettenne che rispose all’annuncio  “Cercasi Dj per gruppo rap”- ad una locandina di Domenico D’Alelio – in arte Domi, appeso alla vetrina di un negozio di dischi di Avellino. In rete per i più nostalgici la possibilità di ascoltare Bloodstains (prod. by Fabio Musta) – Sangamaro (Domi & Ghemon), rigorosamente registrato su cassetta. – Era circa il 2001, che spavento, ma soprattutto che Bomba ragazzi! –

“E vissero feriti e contenti” è il mix di esperienze artistiche emozionali, in chiave funk, jazz, soul, indiepop e rap, in cui Gianluca  si è spinto arditamente oltre i suoi spettri. Tutto ciò che ha calpestato è degno di essere considerato parte integrante della bacheca dei suoi trofei. Un omaggio alla sua vita tutta, al suo sputare sangue, al suo conquistare tappe. “Ho sperato cose così fortemente, che ero certo si sarebbero avverate. Ma se continuo ad essere il solo a vederle, ci rinuncio e penso che le ho immaginate. Lo so che è inutile volere tutto e subito, perché capricci e fretta vanno nel sacco dell’umido. Quando mi giudico mi sento svuotato e stupido, ma per la prima volta io lo sto ammettendo in pubblico”.

 

Con un occhio al mio nostalgico rap, e l’altro sui palcoscenici che contano. Gianluca aka Ghemon mi risponde.

 

Mi hanno raccontato di un ragazzo diciassettenne, di registrazioni su cassette, dei Sangmaro e del puro underground. Cosa mi sa dire Gianluca dell’evoluzione in Ghemon e dei suoi primi passi?

Vengo da una gavetta molto lunga, ma sono rimasto sempre indipendente. Sono un cantante, ma con ancora la struttura del dna del rapper, in passato mi facevo problemi tra rap o canto, mi sembrava di dover decidere solo una delle due. Oggi posso dire di avere dalla mia più di un’arma espressiva. Mi sento sicuramente più libero nel fare le cose, perché ormai le ho sperimentate talmente tante volte che ho capito cosa mi riesce bene e cosa no. Per tutta la carriera sono rimasto intrappolato nel restare umile. Con questo album invece esce una parte più consapevole che non è arroganza ma darsi una pacca sulla spalla, prendendosi i meriti per quello che si è fatto. Io sono quello che sono stato, le forme che ho attraversato, gli amori, il sole che ho preso, gli amici e i nemici che ho incontrato.

 

Una grande polemica da parte dei media ha accompagnato questa nuova e sui generis edizione del Festival di Sanremo, per via del fatto che fuori dal teatro si vivessero attimi di panico a causa del Covid – 19. Come l’hai vissuto tu, personalmente, da questo bizzarro punto di vista?

 

È stato sicuramente un Sanremo unico nel suo genere, tutti avevamo una voglia pazzesca di risalire su un palco dopo un anno che non si può dimenticare, ma allo stesso tempo c’è stata una rigida, e giustificata, attenzione al rispetto dei protocolli sanitari. Personalmente, spero che l’ultimo anno sia servito quantomeno ad aprire la discussione su un settore non ancora regolamentato, Bisogna capire una volta per tutte che nella musica ci sono persone che lavorano, artisti, tecnici, centinaia di figure professionali, non è un passatempo. Alle parole devono seguire i fatti e sicuramente Sanremo è stata una vetrina che ha dimostrato che il settore musicale e in generale quello dello spettacolo possono, anzi devono, ripartire, pur nel rispetto della salute di tutti.

 

Il titolo del tuo nuovo album nasce con un ossimoro. Quali sono stati gli ossimori della tua vita, del tuo percorso musicale e del tuo album?

È un titolo nato mentre mi fumavo una sigaretta, quasi per caso. Ho pensato che parlasse di me in questo momento. Sono io, ma è anche la mia generazione. È la fine di una fiaba e l’inizio di qualche cosa di nuovo. È un titolo che parla di ciò che siamo stati, quindi passato ma anche, e soprattutto, futuro. La felicità è relativa, ossimorica, sta anche nelle botte e nei graffi che si prendono.

Nella vita succede di tutto. Cambi tu, cambiano quelli attorno a te, incontri persone diverse, alcune te le porti appresso, molte altre le lasci lungo la strada. Pigli botte, fregature, poi però ti guardi allo specchio e sei contento di come è andata, perché tutte queste esperienze, pure dolorose, ti hanno fatto diventare ciò che sei. Credo sia questo l’ossimoro più grande che racconto nel mio album e che rappresenta la mia vita.

 

A mio avviso è pieno di ermetismo il tuo ultimo disco, riferimenti, simbolismi, figure retoriche. Ho sempre creduto che il simbolismo nella musica abbia storicamente avuto un valore particolare, talvolta come nella poesia, e che consequenzialmente funzionasse prima come d’altronde funziona ancora oggi. Tu che idea ti sei fatto, cosa funziona oggi nella musica? Quanto è difficile discernere la propria essenza artistica da quello che vogliono sentire gli utenti, i fruitori del mercato musicale?

 

Nella mia musica cerco di metterci dentro tutto ciò che mi piace: in fondo io sono i miei ascolti. Non ho mai una reference vera e propria quando scrivo, cosa che invece è molto comune nel mondo del pop.Gli autori spesso ricevono istruzioni come «scrivi un pezzo tipo X» o «prova a farlo come quelli cantati da Y» e purtroppo poi alla fine il risultato è deludente. Io cerco di digerire tutto ciò che sento abitualmente, capirne il senso e di rielaborarlo a modo mio, senza mai pormi un obiettivo e credo che i tempi siano finalmente maturi per proporre anche cose diverse. Tutti i ragazzi di oggi, grazie allo streaming, hanno accesso a milioni di dischi e a migliaia di generi. Grazie alla rivoluzione che il rap e la trap hanno portato nel mercato discografico, poi, si è aperta la strada anche per altri sottogeneri.

Spero di poter essere una specie di traduttore, e che i miei dischi possano fare da ponte verso cose ancora più complesse e ricercate. Vorrei portare in Italia un concetto musicale nuovo, diverso, e mi piacerebbe che non fosse più una nicchia ma una realtà consolidata. Non ho mai giocato nel campionato del pop, a volte mi sono sentito poco capito, perché la mia musica, come quella di chi fa un genere diverso da quello che è mainstream in questo momento, è un diesel: ha bisogno di tempo per ingranare.

 

Due album in dodici mesi, Ghemon il tuo percorso artistico e professionale ha avuto paura del Covid -19? Cosa c’è dietro questa tua grande operosità?

 

Questo è stato un anno intenso sotto tanti punti di vista. Anch’io l’ho vissuto a ondate, ho dovuto capire cosa mi stesse succedendo e come altri colleghi all’inizio mi sentivo bloccato ad osservare. Poi sono arrivate la reazione, l’aggiustamento, la voglia di vivere e, nonostante avessi appena fatto un album, il desiderio di scriverne subito un altro che fosse “pieno di energia e vita”. “E vissero feriti e contenti” è un progetto fatto davvero per voglia, per esigenza espressiva, perché ho trovato delle persone eccezionali che hanno lavorato gomito a gomito con me.

Era una situazione troppo più grande di me, perciò non ho voluto concedermi la scusa di lamentarmi: non potevo farci niente, punto. È stata una coincidenza sfortunatissima, perché Scritto nelle stelle era un lavoro in cui credevo molto e poteva sicuramente arrivare a più persone, ma come dico in Momento perfetto, il pezzo di Sanremo, “se le cose stanno così non posso fare altro che giocare al rialzo e raddoppiare”. Era l’unica cosa che rientrava realisticamente nelle mie possibilità. Forse una volta avrei subito la situazione molto di più, ma con gli anni ho imparato a non farmi sopraffare più dalle circostanze. Oggi penso a come dare dire ritmo alle cose quotidiane, a come renderle interessanti ed è quello che ho cercato di fare in questo album.

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